Meditazione ed evitamento, perché parlare di meditazione e spiritualità?
Ego spirituale
Negli ultimi anni, anche a causa di interpretazioni anti-spirituali, colpose o dolose, di origine ”New Age” e ”Woke”, sempre più persone si sentono attratte dai vari percorsi spirituali nel velleitario tentativo di ottenere, tramite questi, un’insensibilità psico-sensoriale.
È fraintendimento comune di queste persone credere di poter eliminare definitivamente i propri pensieri, le proprie sensazioni e le proprie emozioni negative intraprendendo determinati percorsi o pratiche spirituali. In tali contesti dunque, le pratiche spirituali, comprese le varie discipline meditative, vengono utilizzate in via anti-spirituale come strumento di evitamento nei confronti di tutto ciò che viene considerato come fonte di sofferenza psico-fisica. La tendenza a trasferire il proprio continuum nevrotico all’interno di un percorso spirituale viene indicata come ”Ego spirituale”.
La pratica meditativa come "zona di comfort": un campanello d'allarme
Anche grazie ad un utilizzo “ego-ipertrofico” dei social network, sempre più comuni sono le testimonianze di persone ”Woke” che descrivono il proprio percorso spirituale come ”cool” o ”piacevole”. Tali testimonianze vanno considerate, in linea di massima, come un campanello d’allarme. Ogni riduzionismo in tale contesto è da considerarsi come anti-spirituale in quanto Ego-centrato ed illusorio.
L’evitamento a priori di qualsiasi situazione conflittuale e la costante ricerca della ”zona di comfort”, seppur congenite del nostro sistema neuro-cerebrale in funzione anti-stress e di auto-preservazione energetica, sono spesso anche funzionali alla coazione a ripetere di stampo nevrotico. La crescita spirituale non è ”regalata” bensì un percorso di norma lungo, lento, tortuoso e doloroso. Stando a Gunaratana infatti ”occorre guardarsi anche dall’attaccamento ai pensieri salutari. Lasciar andare implica andare al di là di bene e male (…)
Cercare l’illuminazione istantanea può rivelarsi una grossa illusione egocentrica” e ancora ”L’attaccamento è radicato nella nostra psiche e rinforzato nel corso di molte vite. È impossibile liberarsene rapidamente o facilmente”.(1) Intraprendere un percorso spirituale e nella fattispecie praticare tecniche meditative tradizionali, non è ”cool”, non è ”piacevole” e non è nemmeno lontanamente divertente. È semplicemente necessario.
Per tale motivo è buona regola, per un istruttore, diffidare da chi descrive l’andamento della propria pratica meditativa con termini tipo ”facile” o ”rilassante”, in quanto solitamente essi sottointendono che questa non viene svolta correttamente. Se brevi istanti di ”mente calma”, leggerezza, felicità o di assenza di pensieri, emozioni e sensazioni possono essere conseguenza della pratica meditativa, questi certamente non sono ne la consuetudine ne tantomeno l’obbiettivo principale.
Le 4 nobili verità; l'evitamento come fonte di sofferenza
Nella Prima Nobile Verità, il Buddha descrive il dolore come parte ineluttabile della Vita. Nella Seconda Nobile Verità pone le cause del dolore nell’attaccamento. L’attaccamento si nutre a sua volta di ”tre veleni”; desiderio (volere), avversione (non volere), ignoranza (essere indifferenti). L’evitamento è pertanto una delle fonti della sofferenza. L’atteggiamento con cui approcciare un percorso spirituale o da assumere durate la pratica meditativa, non è quello di ”evitamento” o di ”ritirata” dinnanzi a ciò che si considera doloroso o spiacevole, bensì l’esatto contrario.
Se dovessimo descrivere in termini militari, ormai desueti, questo tipo di atteggiamento, potremmo utilizzare quello di ”ingaggio”, ovvero l’azione di slancio, vigile e pronto, verso lo scontro d’arme all’interno di un conflitto. Chi siede a meditare decide di porsi coscientemente in un ”campo di battaglia”. L’obbiettivo della Meditazione di Consapevolezza (Sati) infatti è quello di entrare in contatto con il dolore, mantenendo una postura dignitosa, conservando uno spirito equanime ed accennando un lieve sorriso sul nostro volto.
Non si tratta dunque di una pratica, come nel fraintedimento ”Woke”, volta alla rimozione dei nostri pensieri – cosa del resto impossibile in quanto attività congenita del cervello – ma all’osservazione equanime degli stessi. Sati va pertanto intesa come un continuo allenamento volto ad affrontare dignitosamente quella sofferenza psico-fisica che viene fatta emergere dall’inconscio grazie alla pratica stessa. Perchè è proprio l’osservazione focalizzata e coraggiosa delle nostre paure che conduce alla loro ”integrazione”. Dicendola con Jung, guarire le proprie ferite portando la luce dove ora c’è buio.
L’approccio al conflitto nei percorsi spirituali tradizionali nel corso della Storia
Che l’astensione dal conflitto sia caratteristica propria delle dottrine spirituali tradizionali è un fraintendimento del tutto occidentale. Gli esempi storici di legami tra caste guerriere e pratiche spirituali sono molteplici e non è obbiettivo di questo scritto elencarli tutti. Di conoscenza comune è la storia dei Samurai o il passato guerriero del popolo tibetano.
In questo contesto tra gli esempi più noti citiamo l’appartenenza di Siddhattha Gotama (pāli)/Buddha Śākyamuni al clan guerriero Śākya, mentre tra quelli meno noti vi è quello del famigerato Gengis Kahn, considerato dai buddisti della Mongolia come dharmapāla (protettore del Dharma) e Cakkavatti (pāli)/Chakravartin (colui che gira la ruota del Dharma a livello universale). Secondo alcune fonti Gengis Kahn (Chinggis Khan) sarebbe stato legato genealogicamente allo stesso clan Śākya.(2) In tempi più recenti vi è poi il caso, certamente più estremo, del diffuso coinvolgimento dei monaci buddisti nel complicato conflitto intra-religioso in Myanmar.
Lo stesso Dalai Lama ha del resto più volte espresso la convinzione che l’uso della forza per la risoluzione di cause di ordine maggiore (come ad esempio la difesa della vita umana, propria od altrui) non sia incompatibile con l’insegnamento del Dharma, a patto che questa sia applicata in via disidentificata (ovvero senza rabbia ed odio) e caratterizzata da compassione. Annosa è del resto la diatriba teologica relativa alla possibilità per un Bodhisattva di farsi carico delle responsabilità Karmiche, conseguenti all’utilizzo della forza, per salvaguardare un consistente numero di vite umane.
Nemico Vero vs. Nemico Assoluto
Durante il secolo scorso, la differenza tra approccio spirituale e anti-spirituale nel contesto di un conflitto è stata oggetto di analisi anche da parte di alcuni filosofi occidentali. Carl Schmitt osservava ad esempio come la relazione con il ”nemico” sia profondamente mutata a seguito della rivoluzione francese.(3) Alla figura del ”Nemico Vero”, ovvero colui che anticamente veniva, ove necessario, combattuto per difesa della propria vita e dei propri spazi vitali, si contrappone in epoca post-illuminista, la figura del ”Nemico Assoluto”, ovvero colui che deve essere annichilito fisicamente e moralmente in quanto ”disumano”. Se con il ”Nemico Vero” l’inimicizia poteva, eventualmente, svilupparsi in conflitto ma solitamente nell’ottica di una futura stipulazione di trattati di pace e dell’ottenimento dunque di una futura, più o meno amicale, convivenza, con il ”Nemico Assoluto” quest’ultima viene esclusa a priori. Esso viene infatti considerato un ”contro-rivoluzionario”, non funzionale ai propri fini e come tale meritevole di soppressione. Risulta dunque evidente l’influenza della visione post-illuministica nella relazione contemporanea delle persone con i conflitti – di tipo fisico o psicologico – e con tutto ciò che viene da queste considerato come spiacevole. Quello che viene percepito come non funzionale alla nostra situazione attuale – di fatto al nostro Ego – viene in linea di massima evitato, represso o rimosso.
La meditazione come arte marziale
È dunque possibile equiparare le pratiche meditative tradizionali alla stregua delle arti marziali. Per praticare correttamente è necessario infatti sviluppare una disciplina ferra; una disciplina che ci ”costringe” a sedere ogni mattina a gambe incrociate ad affrontare la pigrizia, la paura dei nostri ”mostri” e l’insofferenza verso gli acciacchi fisici e verso la sofferenza psicologica che potrebbero emergere durante la pratica. Come detto, l’obbiettivo principale della meditazione non è quello di ”annullare” la sofferenza ma bensì di porci costantemente faccia a faccia con i nostri traumi e con le nostre paure, sviluppando di fatto Coraggio. Solo tramite il Coraggio potremo affrontare, con calma e centratura, qualsiasi situazione, anche quella più dura. Un vero e proprio allenamento teso allo sviluppo di quella forza interiore necessaria per poter affrontare con consapevolezza e accettazione, al momento giusto, l’ineluttabile.(4) In totale anti-tesi con la figura moderna del ”guerriero” hollywoodiano steroidato, drogato di adrenalina, sconsiderato, spinto alla cieca esaltazione ed iper-reattività da overdosi di testosterone e dalle propria condizione nevrotica, la pratica meditativa vi contrappone la figura del Guerriero di tipo spirituale tradizionale. La Meditazione va dunque considerata come una vera e propria palestra mentale dove si impara a ”lasciare andare”, con fermezza e lucidità, durante qualsiasi avversità. Come nella tradizione del Bushido, ove ”Colui che è irreprensibile si tiene fuori dal tumulto degli eventi”.(5)
Accettazione e non aspettativa - meditazione e spiritualità
Le pratiche meditative tradizionali, come Sati, vanno dunque approcciate senza alcuna aspettativa. Il meditante deve semplicemente mettere l’intenzione nella pratica e limitarsi ad osservare i propri movimenti interiori, astenendosi dal catalogare od etichettare ciò che emerge. Ovvero senza pretendere che l’esperienza sia in qualche modo differente da quella sperimentata, assumendo un atteggiamento equanime ed imperturbabile di fronte alla manifestazione di qualsiasi eventuale sensazione, che essa sia piacevole, spiacevole o neutra. In sostanza stare in ”ciò che c’è” nel ”Qui e ora”. È infatti solo grazie alla continua pratica di osservazione ed accettazione delle nostre risposte interiori di fronte ad una determinata sollecitazione, esterna od interna, che riusciremo pian piano a disattivarne la loro attivazione automatica, disinnescando così la coazione a ripetere e di fatto riducendo la sofferenza. Proprio come Yudhishthira, colui che nel Kṛṣṇaveda della tradizione induista ”resta saldo in mezzo al campo di battaglia”.(6)
Tommaso Chiussi, Istruttore MOM
Note
(1) Henepola Gunaratana, La felicità in otto passi, Ubaldini 2014, p. 60.
(2) Su questo interessante tema si veda I. Charleux, Chinggis Kahn; Ancestor, Buddha or Shaman?, Mongolian Studies 31/2009 di cui un sunto è disponibile alla pagina web https://shs.hal.science/halshs-00613828/document
(3) Carl Schmitt, Teoria del Partigiano, Adelphi 2005
(4) Ghesce Yesce Tobden, Bodhisattvacharyavatara, Chiara Luce 1997, p. 258
(5) Bushido, Feltrinelli, p. 136, ed. 2013.
(6) Swami Veda Bharati, Bhishma, Mimesis 2006, p. 29